Si racconta di quel soldato giapponese che per 30 anni visse nascosto nella giungla delle Filippine non sapendo che la guerra era finita. Convinto che il nemico fosse ancora in agguato oltre la linea degli alberi, mantenne per tutto quel tempo i comportamenti necessari alla sua protezione: si riparava dentro le grotte, si muoveva cercando di non fare rumore, pronto in qualunque momento a imbracciare il fucile. Le azioni che durante la guerra gli avevano permesso di sopravvivere erano ormai inutili, ma lui non lo sapeva.

É proprio ciò che facciamo quando manteniamo comportamenti che sono serviti a proteggerci da una certa minaccia anche quando il pericolo è passato. È il meccanismo fisiologico sottostante lo stress cronico ed è qualcosa che attuiamo anche a livello psicologico e relazionale.

Si comincia, per reazione ad una situazione specifica, a proteggersi dalle circostanze che la richiamano molto da vicino. Ad esempio una donna sofferente per essere stata lasciata dal partner comincia ad evitare gli uomini che le interessano, tanta è la paura di rivivere quella ferita. Ma questo dopo un po’ non le basta più per sentirsi al sicuro così alza ancora la soglia di protezione generalizzandola a tutte le situazioni in cui potrebbe incontrare un potenziale nuovo partner: inviti a cena da amici, feste, eventi mondani. E poi la alza ancora, sfuggendo qualunque sguardo si posi casualmente su di lei, in autobus, al supermercato, alla posta.

La protezione funziona così: quando non elaboriamo a fondo quel che ci ha feriti, continuiamo ad alzare l’asticella di sicurezza fino a schermarci anche da quello che non rappresenta alcuna minaccia, anche da quello che in fondo desideriamo.

La sua vita sociale diventa sempre più limitata, la ferita si cristallizza in un blocco che le fa terra bruciata attorno. Ha iniziato col tenere lontano qualcuno ed ora tiene distanti tutti o quasi, credendo così di arginare il dolore e la paura, in realtà dando loro più forza. Quella difesa che inizialmente le ha permesso di attutire la ferita e sentirsi al sicuro nel momento di maggiore fragilità si è chiusa pian piano intorno a lei divenendo una gabbia da cui, quando anche volesse un contatto con l’altro, non saprà come uscire.

“Ho pensato alla felicità e ho avuto paura”. Wislawa Szymborska

Un giovane uomo che da adolescente è stato vittima di bullismo a scuola. Non ne ha mai parlato con nessuno, lo fa per la prima volta in terapia. Non ne ha parlato ai genitori quando le violenze e i soprusi rendevano un incubo i suoi giorni di liceale, ha affrontato tutto da solo come un pugile che davanti ad un avversario più grosso di lui non può far altro che piegarsi e incassare, tenere basso lo sguardo per non provocarlo. Un modo di sopravvivere ad una circostanza precisa è diventato una postura del corpo e uno stile di esistenza anche lontano da lì e a distanza di anni, con chiunque lui incontri. Un soldato convinto di essere ancora in guerra che ascolta ogni fruscio della foresta, pronto nascondersi.

La psicoterapia è anche il luogo dove scoprire che la guerra è finita. Dove il corpo può rilassarsi e riprendere la sua postura eretta dopo anni di profilo basso; dove (re)imparare a differenziare le situazioni – quelle minacciose da quelle che non lo sono. Dove sperimentare la novità di chiedere aiuto a qualcuno, invece di fare tutto da soli, e pian piano allentare la protezione. Perchè è, anzitutto, il luogo dove risentire quella paura e la solitudine in cui è stata vissuta, facendo questa volta esperienza dell’essere visti, non giudicati, incondizionatamente sostenuti. Questa è l’informazione che ripara.

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illustrazione di Glenda Sburelin

*Leggi la storia di Hiroo Onoda

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