Oggi pomeriggio sedute a distanza. Chiudo la mia videochiamata su skype mentre nell’altro studio Matteo ne avvia una su whatsapp. Mi arriva la sua voce ovattata mentre saluta il suo paziente che vive in Piemonte. Penso a quanto sia divenuto normale ormai qualcosa che fino a due anni fa noi terapeuti, e tutti i colleghi che in varie forme si occupano di relazione d’aiuto, guardavamo con diffidenza. Lavorare coi pazienti a distanza era il grande tabù, il demonio stesso per i più ortodossi.

Se la pandemia non ci avesse costretti ad adottare “per forza di cose” questa modalità per non interrompere le terapie, forse saremmo ancora chiusi a questa possibilità e divisi in fazioni a favore e contro, in base all’approccio teorico, all’esperienza, al giudizio e gusto personale.

Un fattore esterno, inatteso e grave, ha sgombrato il campo da tutto. E solo alla prova dei fatti abbiamo potuto capire meglio se e quando è una buona prassi, se e quando non lo è. Che cosa cambia effettivamente dal vivo e dietro uno schermo, in quali situazioni è più opportuno che l’incontro rimanga in presenza e quando si può lavorare a distanza senza che questo diminuisca l’efficacia dell’intervento. Quando chiedere che la persona venga in studio anche se preferirebbe collegarsi da casa, e che lettura dare a questo; e quando accordarlo, e che lettura dare a questo.

(Ammettere e coltivare) questo spazio di dubbio e verifica mi sembra fondamentale e non solo per questo lavoro. “Questo immenso non sapere”, per usare le parole di Chandra Livia Candiani: il sostare nello spazio tra ciò che già conosco e ciò che ancora non so. Abitarlo, respirarci, rilassarsi in questo. Fare vuoto, farsi vuoto non come qualcosa che toglie ma che anzi dilata rendendo più capienti: più capaci di contenere.

Sopportare di non sapere più e di non sapere ancora (di non essere più e di non essere ancora). Sopportare di non avere risposte; di non agire subito pur di scappare da quel vuoto. Aspettare senza attendere… Non finalizzare per forza le azioni ad un obiettivo produttivo, ad un risultato.

Sì. “Dal vivo è un’altra cosa”.

Ma in questi due anni ho visto persone prendere da una seduta online tutto il nutrimento, il sostegno, la vicinanza che potevano come a volte non vedo fare a chi ho seduto di fronte. Mi ricordano quelle piantine che crescono in terreni apparentemente sterili da cui riescono ad estrarre tutto ciò che serve loro per vivere e fiorire.

Non è una questione di merito o bravura: anche prendere o non prendere il nutrimento che ci serve ha a che fare con la nostra storia e le sue ferite.

cura distanza

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