L’ennesima pubblicità di un weekend olistico “per guarire dal trauma” mi fa accendere il computer e scrivere di getto queste parole. Prestiamo attenzione quando troviamo iniziative che promettono di liberarci dai nostri traumi (in un weekend). Prestiamo attenzione al linguaggio che usano, alle promesse, alla “tecnologia psicospirituale” che dovrebbe risolverci la vita, a come questo dovrebbe accadere.
Ma soprattutto prestiamo attenzione a noi stessi, a dove queste proposte ci toccano, su quale bisogno ci agganciano, quali speranze e fantasie salvifiche ci solleticano.
Sono 20 anni che, accanto al mio lavoro di psicoterapeuta, studio e sperimento discipline e tecniche per il benessere e l’evoluzione della coscienza. L’invito a fare attenzione non nasce da pregiudizi o steccati professionali ma da alcune evidenze:
Non tutto ciò che di doloroso ci è accaduto è “trauma”.
Va detto che negli ultimi tempi il termine “trauma” ha spazzato via ogni altra sfumatura concettuale con cui per decenni gli stessi psicoterapeuti hanno pensato, differenziato e curato il dolore emotivo. Storie, vissuti, ferite molto diverse tra loro per gravità e possibilità di trattamento sono finite in unico calderone. Assistiamo al proliferare di tecniche che isolano il trauma dal resto della storia del paziente e dal suo contesto ambientale per inciderlo quasi chirurgicamente. Questa visione ha informato tutti gli ambiti che si occupano di salute mentale, benessere, crescita personale, spiritualità: ormai tutto è trauma, ogni esperienza dolorosa è traumatica ed ogni sintomatologia post-traumatica.
Poter differenziare tra eventi di vita traumatici ed eventi non traumatici non è semplicemente una questione linguistica, ma condiziona il modo in cui i terapeuti concettualizzano e incontrano la sofferenza dei loro pazienti.
Per affrondire l’argomento, consiglio l’articolo di Gianni Francesetti e Michela Gecele: “Anche gli psicoterapeuti sono abbagliati dal trauma (come i loro pazienti)? Oltre la pan-traumatologia“.
Il trauma non è “qualcosa” da cui ci liberiamo nè tanto meno veniamo liberati.
Che di trauma si tratti o meno, quell’esperienza è un momento della nostra storia, della narrazione con cui siamo identificati, che si manifesta nel modo che abbiamo di rapportarci al mondo – e anche di evitarlo. E più è stata precoce e le figure di riferimento di poco sostegno, più l’edificio della nostra personalità potrebbe essere rimasto, in qualche parte, offeso. Occorre un’estrema delicatezza, e sensibilità, e presenza, nel trattarlo.
Molte delle “tecnologie” che vengono proposte in certi ritiri non solo possono avere un effetto dirompente su chi è più sensibile, ma quasi mai prevedono un accompagnamento nel dopo, nei giorni e nelle settimane successive, quando il materiale emotivo eventualmente emerso ha più bisogno di essere processato, digerito, assimilato INSIEME.
Smuovere non significa elaborare. Sentire qualcosa di forte non significa che la ferita è stata sanata.
Significa eventualmente che la sollecitazione (respiro, danza, pianta psicoattiva, tamburo, ecc) ha portato a galla dei nuclei emozionali che per qualcuno “si risolvono” in un pianto, una scarica adrenalinica, un pensiero rabbioso, qualche giorno di tristezza, ma per altri possono peggiorare anche gravemente lo stato psicofisico che si voleva risolvere.
Il trauma lo si supera integrandolo nella coscienza, non sforzandosi di liberarsene. Ma per poterlo integrare va avvicinato con tempi e modi ‘ecologici‘ differenti per ciascuno, nel rispetto di quel meccanismo salvavita della “fisica emozionale” per cui emerge alla consapevolezza solo quello che la persona può sostenere in quel momento. Ciò che sarebbe troppo per la tenuta psichica non emerge perchè è funzionale (protettivo) che non emerga.
Se peró andiamo a scuotere la coscienza e aggredire i sistemi di protezione e se non possiamo contare sull’accompagnamento, nel dopo, di chi ci ha proposto l’esperienza (perchè non disponibile, non più raggiungibile, non preparato a questa parte del processo), per qualcuno potrebbero esserci delle conseguenze molto spiacevoli da cui non è detto sia semplice e veloce riprendersi.
Come nel guidare ci sono delle zone cieche che nello specchietto retrovisore non possiamo vedere, altrettanto per conoscere e curare noi stessi abbiamo bisogno anche dello sguardo di un altro. Perchè per lo stesso sistema di protezione la coscienza non ci porterà sulla scena del “trauma” solo perchè lo vogliamo. Molti ricordi, immagini, sensazioni, possono essere risvegliati solo dalla parola, dalla domanda, dallo sguardo di un altro. Idem la loro integrazione.
Un’indicazione inequivocabile per ricordarci che prima, durante e dopo qualunque tecnica, ci deve essere la relazione.