“Pensare positivo” funzionerà il giorno in cui potrai credere a “ce la posso fare” con la stessa disarmante certezza con cui da piccolo credevi alle parole di tuo padre quando ti diceva “sei un buono a nulla”.
Funzionerà quando “vado bene così come sono” suonerà dentro al tuo cervello e pulserà dentro le tue cellule con la stessa autorevolezza di “chi ti vorrà se ti comporti così?” di tua madre mentre crescevi.
Il pensiero positivo è un graffio leggero sulla superficie di un disco le cui tracce sono marcate a fuoco nella memoria del corpo – un corpo individuale ma, all’interno di una stessa cultura, anche un corpo collettivo.
Il pensiero positivo è un cocktail in cui abbiamo mescolato, fino a renderli indistinti, concetti estrapolati da filosofie che in altri luoghi informano l’intera vita di una persona e di una comunità e di cui pretendiamo di usare solo le parti più semplici e accattivanti. E lo facciamo su un piano puramente cognitivo, “corticale”, dunque meno incarnato e convincente rispetto al vissuto emotivo.
Quando la paura di non farcela e il senso di inadeguatezza fanno capolino dalla nostra storia, risvegliati da una situazione che non riusciamo ad affrontare, a che cosa crediamo veramente nel rivolgerci a noi stessi?
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Questo significa che non possiamo modificare il nostro atteggiamento verso la vita? No, ma non accadrà semplicemente contrapponendo una narrazione positiva alle credenze più radicate in noi.
In quella predazione culturale di antiche filosofie abbiamo tralasciato la parte fondamentale: la visione di un’esistenza ciclica, dinamica, in cui “bianco” e “nero” si rincorrono e compenetrano continuamente. In cui vita, morte e trasformazione (successo e fallimento, gioia e dolore, vicinanza e perdita) sono forme di uno stesso movimento vitale. Senza questo sfondo, il pensiero positivo rischia di essere una nuova via di fuga da noi stessi e dalla complessità dell’esistenza, invece che una via di integrazione, completezza, pacificazione.
Allora è da questo che vale la pena cominciare. Da cosa ci stiamo proteggendo pensando positivo, da quale parte vulnerabile e sacra di noi, da quale convinzione su noi stessi? E di quale sostegno abbiamo bisogno per affrontare ciò che abbiamo davanti senza negarne alcuna parte, per sentirci, come diceva Walt Whitman, vasti e capaci di contenere moltitudini?
Il pensiero si forma dentro una relazione, si ammala di relazioni e si cura con relazioni. Perchè l’incontro con l’Altro ha un potere che l’autoconvincimento non ha: riscrivere le informazioni del nostro dna (epigenetica). Ecco la matrice dell’esperienza: solo una (buona) relazione può curarne un’altra.