Una delle domande più frequenti al primo incontro è “Quanto durerà la psicoterapia?” Un interrogativo del tutto legittimo dal momento che questa comporta un impegno di tempo, energie e soldi. Ma se per un intervento/riabilitazione fisica è più semplice dare indicazioni in tal senso, quando si lavora su di sé dal punto di vista psicoemotivo si possono offrire ipotesi più che previsioni certe su quanto durerà e provo qui a spiegarne il perché.

Nell’immaginario comune, una volta che il terapeuta ha compreso la natura del problema non deve fare altro che comunicarlo alla persona che così conosce la causa della propria sofferenza. La durata di una terapia sarebbe allora il tempo necessario a questo “disvelamento” e più il terapeuta è preparato meno sedute gli servono per capire cosa non funziona. Ma la psicoterapia non è questo, se lo fosse non porterebbe ad un reale, duraturo, consistente beneficio.

Per due motivi:

La comprensione razionale è una parte importante ma non sufficiente della terapia. Questo risulta particolarmente evidente nei disturbi psicosomatici, dove la sofferenza sceglie la via del corpo per esprimersi nel linguaggio del sintomo fisico. Se la comprensione razionale bastasse a risolvere le cose, sarebbe sufficiente leggere uno dei numerosi testi sul significato psicosomatico della malattia per avere le informazioni necessarie a guarire.

Solitamente, chi arriva in terapia ha già letto molte cose e imparato possibili significati e collegamenti; arriva cioè con una mappa di lettura della propria situazione, che però non è bastata. La psicoterapia più che alle mappe si rivolge al territorio, l’esperienza autentica e incarnata della persona così come si manifesta nelle emozioni, nei gesti, nei sogni, nei turbamenti che emergono nel vivo della relazione. Perché è nell’esperienza unitaria (che include mente e corpo) che risiede il potenziale curativo.

La risoluzione è il frutto di un lavoro di relazione in cui terapeuta e paziente sono entrambi parti (diversamente) attive. La relazione è lo sfondo che dà senso al sintomo permettendo di rivelarne la funzione. Così come per comprendere il significato di una parola serve la frase in cui è inserita, per comprendere il significato di un dolore emotivo, di un disturbo, occorre un contesto relazionale vivo qui ed ora, animato di sensazioni, ricordi, bisogni, emozioni.

Dalla relazione tra il paziente e il terapeuta emergeranno gli elementi utili a fare esperienza e a comprendere l’esperienza, a sostenere attitudini nuove e dare senso a quelle non più funzionali.

Per questo occorre tempo. Non prevedibile con precisione, variabile da persona a persona, da situazione a situazione.

Fare psicoterapia è percorrere insieme la casa abitata da tutta una vita. Quanti lascerebbero che un estraneo appena entrato dalla porta si aggiri per le stanze più intime, lì dove è annidata l’affettività più privata, dove il corpo custodisce memorie a volte ignote anche a chi vi abita? Quanto tempo può volerci per raggiungere un livello di familiarità, confidenza, sicurezza tali da permettere all’ospite di avanzare verso il cuore della casa senza percepirlo come invasivo e minaccioso? Dipende. Non è diverso dal tempo necessario perché un rapporto di fiducia e confidenza si instauri con il terapeuta – inizialmente un estraneo in casa – così da poterlo lasciar accedere alle stanze più intime, vulnerabili, ferite del sé, lì dove avrà luogo la parte più importante e delicata del lavoro.

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