“La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi…”. José Saramago

Può sembrare anacronistico parlare di solitudine nell’era dell’iperconnessione globale, ma è proprio quando un fenomeno dilaga che occorre divenire più attenti a ciò che rischia di andare nell’ombra.

Mi interessa in modo particolare la solitudine dei bambini. Non quella che possono provare se mamma e papà non sono fisicamente presenti, ma una forma meno ovvia e più subdola per le conseguenze che può avere su di loro.

Un bambino si sente solo ogni volta che viene fatto sentire sbagliato; quando i suoi bisogni non sono visti, quando viene deriso o rimproverato per le sue emozioni. Quando non ha accanto qualcuno che lo consoli se è triste, che lo rassicuri se ha paura o che validi la sua rabbia.

I bambini hanno bisogno che un grande faccia questo con loro per poter imparare a modulare da soli le proprie emozioni e interiorizzare la presenza rassicurante dell’altro. Questo fonderà il nucleo vitale dell’esperienza del “sono visto, (quindi) sono al sicuro, (quindi) sono amato, (quindi) posso farcela”.

Quando questo non accade, quando anzi l’ambiente umano ripetutamente non si accorge, trascura, sminuisce, i bambini si sentono irrimediabilmente soli. E non è una solitudine equiparabile a quella degli adulti: per un bambino sapersi solo significa sentirsi perso, in pericolo e senza speranza.

Gli stessi vissuti che a distanza di anni emergeranno in terapia, quando gli attacchi di panico o la depressione costringeranno a chiedere aiuto. Sotto stratificazioni di difese erette per simulare un senso di sicurezza, dietro la desolante mancanza di spinta verso la vita, ecco emergere quel lontano, vecchio, dimenticato senso di solitudine che per qualcuno ha preso la strada del terrore paralizzante, per qualcun altro quella della rassegnazione patologica.

Le teorie psicologiche più recenti concordano nell’individuare nel tema della solitudine il terreno da cui oggi origina una grossa parte della sofferenza emotiva – in modo particolare per quanto riguarda stati d’ansia acuti e forme depressive. E non serve arrivare ai casi estremi della trascuratezza (neglect) perché un bambino patisca la mancanza di rispecchiamento emotivo dei genitori.

Fortunatamente, la neuroplasticità del cervello, strettamente legata alla nostra natura relazionale, permette a nuove esperienze positive fatte da adulti di raggiungere quel nucleo e interagirvi.

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illustrazione di Giulia Pintus

La richiesta, ora come allora, è essere visti. Potersi aprire senza la preoccupazione di deludere, di venire rimproverati, di causare tensioni. Poter essere piccoli per un attimo perché quella parte, finalmente accolta, possa integrarsi con le risorse già adulte e l’esperienza della solitudine essere “riparata”, affiancata se non altro, da quella di una connessione che rassicura, valida e contiene e per questo dà speranza.

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