Il lavoro di Alice Miller ha rivoluzionato non solo la psicologia dell’età evolutiva ma anche la visione che la società moderna aveva dell’infanzia fino agli anni ’20. Famiglia, cultura e la stessa psicoterapia finirono dietro al banco degli imputati mentre la psicoanalista svizzera rivelava i retroscena della famiglia tradizionale borghese.
Capita spesso di imbattersi in libri che promettono di cambiarci la vita quasi magicamente, in sistemi di guarigione “ad alta rapidità” che dopo poco tempo cadono nel dimenticatoio, oscurati da nuove meteore editoriali. E poi ci sono libri come questo, vere pietre miliari capaci di rivelare il cuore della sofferenza, di accompagnarci fin lì e poi mostrarci anche il sentiero per tornare indietro.
Siamo abituati a pensare che “bambini abusati” siano solo quelli esposti ad esplicite, inconfondibili forme di violenza fisica e psicologica: bambini maltrattati, abbandonati, puniti duramente, sistematicamente trascurati. Ma nella visione di Alice Miller, “abusato” è ogni bambino che per non perdere l’amore dei genitori (o meglio la loro ammirazione e approvazione), debba rinunciare ad esprimere, fino a non sentirli più, i suoi naturali e istintivi bisogni, desideri, slanci, emozioni. Che ne fanno l’individuo unico che è, ma che spesso il genitore non è in grado di accogliere e dunque umilia, censura, ridicolizza, sminuisce, perchè questo è esattamente ciò che è stato fatto con lui a sua volta.
I bambini sviluppano una sorprendente capacità di percepire che cosa i genitori si aspettino da loro e farebbero di tutto per aderire all’idea di figlio di cui mamma e papà hanno bisogno per evitare di confrontarsi con le proprie insicurezze, le proprie ferite, i propri vuoti. Scambiano per amore l’approvazione che ricevono per essere così bravi a incarnare quell’ideale: un imbroglio in cui continueranno a ricadere da adulti, ogni volta che rinunceranno ad essere se stessi per ricevere approvazione, convinti che quello sia amore.
Il prezzo che i bambini pagano per dare forma a questo “falso sè”, spiega Alice Miller, è la sepoltura, sotto strati di insensibilità e solitudine, della loro spontaneità e autenticità, quella che ne sostiene il benessere, la vitalità, l’integrità emotiva e affettiva: dunque la felicità. Su queste basi si strutturano alcuni dei più diffusi malesseri e disturbi psicologici, almeno fino a quando la vita non scatenerà un “pretesto” (una malattia, un lutto, una separazione, un cambiamento importante) che scoperchia quella botola di dolore spingendo a cercare l’aiuto di un terapeuta.
Ciò che la psicoterapia inizialmente permette loro di sentire è il dolore di non aver potuto essere se stessi. Un passaggio non solo inevitabile ma necessario per sanare quella ferita. Realizzare che l’infanzia che avevano idealizzato non è stata così felice, che i genitori di cui si fidavano ciecamente (e non poteva che essere così) hanno esercitato su di loro quella forma di abuso, sarà lo squarcio doloroso che restituisce verità alla vista: i conti ora tornano.
Tornano, trovando finalmente un nome e una collocazione dentro di sè, la solitudine e la tristezza che li hanno seguiti come ombre fin da piccoli; il distacco emotivo, l’ambivalenza inconfessabile verso i genitori, la difficoltà a creare legami da adulti. Tutto questo ora può essere riconosciuto, confessato a se stessi e ad un terapeuta che, diversamente dai genitori, sta con quello che c’è senza desiderare che sia diverso: regge le osservazioni, non è deludibile perché non ha aspettative sui pazienti, sta con il loro sentirsi piccoli senza umiliarli: li vede e non ha bisogno che siano diversi da come sono.
Questa esperienza è profondamente riparativa. È l’atto di cura più importante che un terapeuta possa offrire, e l’atto d’amore più grande che un genitore possa riservare.
Un libro che ogni genitore dovrebbe leggere e ogni ex-bambino rileggere.
illustrazione di Paula Bonet